Nell’estremo lembo occidentale dell’Africa, la città di Rufisque fu fondata dai portoghesi nel’500, poi fu occupata dai francesi. Nell’800 divenne la capitale del commercio dell’arachide, ma rimase offuscata dal sorgere della metropoli di Dakar. Oggi lo scalo coloniale è in abbandono, i moli in legno del vecchio porto sono popolati solo da stormi di gabbiani. Sugli arenili si svolgono sessioni di lotta, si trascorrono lunghi pomeriggi giocando alla dama africana, mentre i vecchi conversano sotto le tettoie delle cases à palabres.
A Tiawlène, un quartiere della periferia di Rufisque, abitava Fat Seck, una grande veggente guaritrice, una delle poche persone abbastanza forti da ospitare in permanenza dentro di sé, senza impazzire, il proprio rab (spirito infestante). Fat aveva dedicato la propria vita a curare le possessioni degli altri, grazie ad un dono che le che proveniva dall’antichità della sua famiglia. Dietro la casa, un vasto campo era pieno di recipienti pieni d’acqua, latte, sangue, pezzetti di legno e ossa d’animali sacrificati. Ogni recipiente (canarì) corrispondeva ad un malato, venuto da Fat Seck per farsi guarire, e conteneva il rab o ginn, lo spiritello malvagio che perseguitava e faceva impazzire.
A volte, però, l’ossessione deriva da pratiche umane, qualche nemico ha assunto un marabù (stregone malvagio) per praticare un interdetto (xalá). In tali casi, l’esorcismo si fa più complesso: è necessario allora praticare una “contro-magia” e liberare forze che devono ricadere su qualcuno, non soltanto sull’animale sacrificato, ma anche sull’autore del maleficio.
I poteri di Fat Seck erano noti. Un mio collega – un giovane finlandese, appassionato di studi sulle culture sciamaniche – aveva letto un articolo su di lei, prima di venire in Senegal. Un pomeriggio, ci recammo a Tiawlène. La vecchia ci ricevette, attorniata da donne della famiglia, ci scrutò con i suoi occhi penetranti, rivelò i nostri segreti più intimi, poi ci fece chiedere dall’interprete perché fossimo venuti.
Prima di salutarci, Fat Seck ci regalò due bastoncini di legno e c’invitò a ritornare dopo qualche giorno: si sarebbe svolta una cerimonia di ndepp, un esorcismo. Era previsto uno ndepp “medio”, con il sacrificio di un capretto. Per le possessioni più violente era richiesto il sacrificio d’un toro, per le più lievi bastavano due galletti.
Il martedì, alle nove e mezzo del mattino, entriamo nel cortile. Fat Seck è rimasta nel suo alloggio, a ricevere visite e offrire consulti. L’officiante dell’esorcismo è una donna piuttosto giovane, Senabou: sembra di capire che sia l’erede designata per ricevere il rab di Fat.
Un solo uomo partecipa alla cerimonia. Coperto di amuleti intorno alla vita e alle braccia, sgozza il capretto e fa colare il sangue in una calebassa. Poi, la cerimonia si frammenta. L’uomo appende il capretto per le corna e comincia a scuoiarlo meticolosamente, seguendo un rituale prefissato e mettendo da parte, in un recipiente, alcune parti: il cuore, il fegato, una zampa. Su questi organi, ancora sanguinanti, sarà scaricata una parte delle forze maligne che infestano la paziente. Da un’altra parte, in un angolo del cortile dei canarì, una giovane donna sta facendo meticolose abluzioni col sangue della vittima. Infine, quasi di fronte al capretto scuoiato, un gruppo di donne prende un canarì nuovo, vi pratica un foro, e poi si fa consegnare le budella del capretto e le lega in una serie di nodini, uno dietro l’altro, come una corona del rosario. Una di loro ha la faccia terribilmente corrosa. Non è lebbra, non è una scottatura: anche l’osso della mandibola è orribilmente deformato.
La paziente è seduta e ci volge le spalle. L’officiante la copre con un panno, le impone le mani, recitando formule. Poi le impone sul capo due galletti vivi e li fa roteare più volte intorno alla sua persona, sempre più lentamente, scuotendoli ad ogni giro verso le membra del capretto, appositamente raccolte da parte. L’uomo continua a scuoiare. La paziente rimane seduta e canta, con le mani sulle ginocchia, le palpebre rivolte verso l’alto. Senabou scuote più volte il panno, con forza, la ricopre, le toglie il rab dal capo e dal corpo e lo scarica sul capretto. Nessuno le mangerà, ma saranno conservate, imprigionate nel canarì del cortile. L’uomo recide il membro del capretto, che comincia a girare di mano in mano: le donne presenti si strofinano la fronte col ciuffo di pelo, pronunciando espressioni augurali. Ripetono l’operazione e lo schiacciano, per farne uscire il sangue, che si passano sulla persona e sotto la pianta del piede. Veniamo allontanati. Poco dopo l’officiante ci raggiunge, beviamo il caffé insieme. Passiamo a salutare Fat Seck, arriva la figlia della malata e veniamo presentati.
Saremmo ritornati ancora a farle visita, ma quando una nostra amica – pensando d’ingraziarsela – le disse che anche sua nonna era veggente e sensitiva, la “madre” non si trattenne e – con una punta di scettico orgoglio – le fece chiedere, tramite l’interprete:
«Come è possibile? Non ho mai creduto che i rab parlassero anche ai tubàb» (il tubàb è l’uomo bianco).
Forse ora rimpiango di non essermi fermato in quell’angolo di paradiso. Forse invece, come tutte le cose della vita, quel mondo poteva essere vissuto solo allora, al tempo giusto: non poteva durare né di più né di meno.
Gli amici di allora si sono persi, annegati ognuno nel proprio mondo quotidiano. Chissà dove sono, in questo momento… Forse solo la veggente Fat Seck – se fosse ancora viva – saprebbe quando e dove farli ritrovare…
Alberto Arecchi (Messina, 1947). Architetto italiano, vive a Pavia, dopo un lungo periodo trascorso in Africa, in vari Paesi. Scrive racconti brevi e poesie, in diverse lingue. Ha vinto premi e si è classificato in concorsi internazionali.
Um comentário sobre ldquo;Fet Seck, la veggente, da Alberto Arecchi”