La festa di Sant’Antonio, a metà giugno, si svolgeva nel mio quartiere, nella via Santa Cecilia. Avevo poco più di cinque anni. Mi ricordo ancora la strada invasa dai banchi e dai fornelli dei venditori di “calia e semenza”, nei posti occupati abitualmente dai carri e dai cavalli destinati ai trasporti di merci per le ferrovie. Mi è rimasto nei sensi il profumo gradevole dei ceci abbrustoliti, ricordo degli anni d’infanzia. Sullo sfondo, nel cielo del sud, s’innalzava il pennacchio di fumo del Mongibello. Giunse il caldo agosto. L’aria estiva lambiva la pelle con aliti caldi di brezza marina. In piazza, davanti al Municipio, c’erano le due statue di cartapesta, enormi, dei giganti Mata e Grifone, lei con la pelle bianca e l’aria tronfia, una corona turrita sulla chioma, montata su un cavallo bianco, e lui moro, riccio e barbuto, con una corazza argentata, su un cavallo nero. Statue alte otto metri, che torreggiavano sulla mia statura di bambino e si stagliavano contro il cielo azzurro. Ero ammirato dalla vista di quei simulacri colossali, che si diceva rappresentassero i mitici fondatori della città. Sarò stato un tenero bambino, ma già allora m’ispirava simpatia quel Grifone, con la barba nera riccioluta e il cavallo nero come pece, molto più di quella Mata cicciottella, dalla carnagione stinta e insignificante, che pure la consuetudine vorrebbe mostrare come vittoriosa. Sul palco, eretto davanti al grande Monumento ai Caduti, si svolgevano canti e balletti popolari. Volevo diventare uno di quei ballerini. Ho ricordato negli anni quelle musiche e quelle danze, li ho sognati in molti periodi della mia vita come ricordi di un’infanzia felice. L’indomani, Ferragosto, la città intera si riversò nei viali e nelle piazze, per la festa della Madonna Assunta e la processione della Vara. La gran macchina scenica di legno, trascinata da centinaia di fedeli a piedi nudi, vestiti di bianco, si mosse a traversare la città. Tanti cori d’angeli che salivano verso il cielo, con la forma d’un cono di gelato capovolto (o diritto? In realtà, ‘capovolto’ è il cono del gelato). In cima, all’altezza d’un palazzo di cinque piani, una statua del Redentore sembra sorreggere la Vergine per un piede, in una posa da balletto classico, e in realtà vorrebbe sospingerla ancora più in alto, verso il cielo. Se mi ricordo bene, allora, nella parte bassa, oltre alle statue e alle decorazioni scolpite, c’erano anche girotondi di bambini in carne ed ossa, con vestiti bianchi e coroncine di fiori tra i capelli. Il pubblico si accalcava intorno, con gran fervore, tra grida ed esortazioni ai tiratori, i bambini sulle spalle dei loro genitori, per vedere al di sopra della folla. Soprattutto nel punto della ‘girata’, dove le file dei tiratori compievano sforzi di destrezza per far compiere uno stretto angolo all’enorme macchina scenica. Era come una gara, da un anno all’altro, per compiere quella manovra con la miglior precisione. Dopo la girata, la processione proseguiva, ma la gran festa popolare sciamava verso il Corso per diventare passeggiata, alla ricerca d’un gelato o d’una granita. Per andare a Punta Faro si percorreva una lunga strada sabbiosa, che passava tra i laghi di Ganzirri, dove si allevavano le cozze. Una distanza, in tutto, d’una quindicina di chilometri. Ho saputo che oggi il panorama è molto cambiato, ma allora si andava veramente in mezzo alla natura vergine. Vicino alla punta estrema, stavano erigendo il gran traliccio dell’elettrodotto che avrebbe collegato la Sicilia al continente, una torre metallica alta più di duecento metri, svettante nel vento e nell’azzurro terso del cielo. Quell’estate andai anch’io a Ganzirri e Punta Faro, sulla canna della bicicletta del mio fratello maggiore. Parecchi anni più grande di me, aveva già finito il Liceo ed era pratico di tutti i percorsi che potessero meritare una gita in bici. Qualche volta, volle anche compiere l’impresa di portarmi in alto sul colle di Matagrifone, sino al Sacrario di Cristo Re, a godere il panorama di tutto lo Stretto. La mia fantasia era rimasta colpita dall’idea di raggiungere la punta, che finiva acuta là dove si congiungevano le onde di due mari. Al solo pensiero, avevo la sensazione d’esser sospeso, proteso in una dimensione instabile, dalla quale la minima scossa, la più piccola vibrazione, avrebbe potuto sconvolgere tutto, tutto travolgere nei flutti. Pensavo di vedere le acque muoversi vorticose, come nel racconto fantastico di Scilla e Cariddi. Volevo in ogni modo andare a bagnare la punta del piede proprio là, sull’ultima estremità dell’isola triangolare… era come stare sulla prua d’una nave che solcasse le onde, e pensavo a quelle colonne sottomarine, che reggevano l’isola da sempre, come una gran piattaforma petrolifera, e all’eroico pescatore Colapesce, che un giorno s’era tuffato per rimediare alla loro fragilità. Cercavo di scrutare nelle trasparenze di quell’acqua cristallina, mi pareva di scorgere i pescispada che giocavano con le costardelle, qualche sirena dai capelli incrostati d’alghe, relitti e tesori… ma non sarei certo riuscito a vedere Colapesce, che si trovava nelle profondità, coperto alla mia vista, poiché doveva sorreggere la colonna che portava la punta dell’isola. Credevo, allora, che la mia vita sarebbe proseguita così, linearmente, e invece… solo pochi mesi, e non sarei mai più ritornato ad abitare nel mio luogo natale. Partii per il nord, con la mia famiglia, nell’inverno seguente. Arrivai in una piccola città provinciale, a metà gennaio, con i marciapiedi trasformati in trincee, tra alti parapetti di neve compressa. Mi trasferii dal porto della Fata Morgana ad una delle città più nebbiose della Pianura Padana, dove è raro vedere una collina o una montagna. Oggi, nelle giornate limpide, con un po’ di vento che ripulisce l’aria, anche da qui si vedono i monti, in particolare il Monte Rosa, che si staglia sull’orizzonte, con la sua sagoma inconfondibile… ma allora, con tutti i fumi delle industrie che ammorbavano l’atmosfera, non mi ricordo che mai si vedesse. Un ambientamento senza dubbio difficile, insieme a compagni di scuola che parlavano in modo diverso e sprezzante del bambino venuto dal Sud. Dopo gli studi, ho trascorso molti anni in Africa, in varie parti, impegnato in progetti di cooperazione internazionale, da un lato e dall’altro del gran deserto, in terre che s’inaridivano, tra gente assetata, che viveva ai limiti della resistenza. Lì ero io che “arrivavo dal Nord”, da un mondo industriale, da una realtà sempre più incurante dei valori profondi della gente. I ricordi infantili sono rimasti in un angolo della memoria profonda, riemergendo solo di tanto in tanto, in maniera inconscia, nei sogni della notte. La verità è che in nessun altro posto mi sono mai più sentito veramente ‘a casa mia’. Altrimenti, forse, il mio lungo viaggio si sarebbe fermato in uno qualsiasi dei luoghi del mondo nei quali ho vissuto: in Somalia, in Mozambico, in Algeria, nel Mali o in Senegal. Mi sentivo a casa mia quando ritornavo in Africa, ogni volta che scendevi dall’aereo nella notte calda, coi grandi ventilatori che ruotavano, il controllo dei passaporti e poi via, verso una casa in riva all’oceano, in mezzo al deserto, sulla sponda d’un fiume popolato da ippopotami o nel patio d’una casa moresca, in un’oasi profumata di zagara, inondata dal richiamo del muezzin. Casa mia, più di quella d’adozione, che avevo lasciato al 45° parallelo Nord. Mi sentivo un poco di più a casa mia quando abitavo ad Algeri, dove il santuario di Notre Dame d’Afrique, su un alto colle che domina la vista sul mare, mi ricordava il ‘mio’ Cristo Re. Vivere in Africa è stato come essere una di quelle onde che lambiscono i lidi degli oceani: fra tante altre, un giorno o l’altro, ne incontri di nuovo qualcuna. Così è stato per le mie amicizie, e ancor più per i conoscenti abituali. La boscaglia, la savana, il deserto sono come mari, le piste li attraversano come rotte e i porti, dove chi ritorna è riconosciuto per i suoi ricordi. Quando sono ritornato, mi sono reso conto che la società moderna, grande, aperta, internazionalista, aperta verso il mondo della solidarietà, era in realtà un piccolo paese, nel quale ogni piccola sfumatura di lingua o di sorriso era riconosciuta. Ormai il mio modo d’esprimermi era irreversibilmente diverso, il mio sorriso era diverso: guardavo le persone negli occhi e non le valutavo dallo splendore della punta delle loro scarpe. Sapevo fare molte cose, sapevo districarmi in circostanze difficili e dialogare in tre lingue diverse, con uomini del popolo e con ministri. Inspiegabilmente, però, sembrava che non fossi mai esistito, neppure per i vecchi amici, o che fossi stato assente per secoli dalla città in cui ero cresciuto: un moderno Ulisse. Gli amici di tutte le mie ‘diverse vite’ si sono dispersi, ciascuno annegato nel proprio mondo quotidiano. Chissà dove sono, in questo momento… Dove sarà finita la veggente senegalese che praticava esorcismi in un cortile, sotto il sole, con gli assistenti che sgozzavano galli e capretti sulla testa dei suoi “pazienti”?… e quella signora, figlia di uno dei primi italiani sbarcati al tempo della guerra d’Africa, che ricordava la propria gioventù come “il tempo in cui i barambara volavano”? Barambara, in lingua somala, è il nome del rosso scarafaggio africano, dalle lunghe antenne, che appare di notte, in orde fameliche, per impossessarsi della casa buia, e poi scompare alle prime luci del giorno. I barambara, in Africa, si trovano dappertutto, anche lungo la parete della doccia, a solleticarvi con le loro lunghe antenne. Mi è capitato persino di trovare qualche cucciolo di barambara stirato, insieme alla biancheria appena tolta dal cassetto. Essi si alzano in volo, però, in un solo periodo dell’anno: nella stagione degli amori. Un volo goffo, che dura poco, come quello delle più eleganti farfalle, come tutte le cose effimere, come la fioritura del baobab o la felicità della stagione giovanile. Molto tempo è passato dalle gite in bicicletta a Ganzirri, ormai più di sessant’anni. Nella mia storia non c’è nessuna crozza, non c’è stato nessun cannone. Ci sono piuttosto uno scarafaggio rosso, la nera barba riccioluta di Grifone, il fumo e l’odore della calia tostata, i ritmi di “Abballati”… Una speranza segreta mi dice che laggiù, oltre l’Equatore, qualcuno mi aspetta sempre, nella penombra, dietro il grigliato d’una persiana, nel profumo intenso dei fumi d’incenso e dei fiori di gelsomino. Sarò accolto con un semplice cenno del capo e un gesto affettuoso della mano, come se fossi uscito mezz’ora prima per andare a prendere il pane, o la frutta al mercato. Come qualcuno della famiglia, del quale si conosce l’andatura, il profumo, la sagoma delle spalle quando s’allontana e il rumore dei passi quando ritorna. Non riesco a pensare la stessa cosa della città sullo Stretto, dove non ho lasciato amici, non ho lasciato ricordi d’amori passionali né compagni di studi. Mi sono rimaste impresse le visioni dei primi ricordi dell’infanzia, i profumi di rosa e gelsomino della casa in cui sono nato, l’aria di casa che non ti abbandona mai, neppure all’altro capo del mondo. Quante volte ho sognato, nelle notti profonde, quelle danze in costume al suono dei tamburelli, il gigante Grifone, di cartapesta, dalla nera barba riccioluta, la strada che si snodava lungo la striscia di sabbia tra i due laghi litoranei e il blu del gran vortice profondo, il richiamo delle sirene…


Alberto Arecchi (Messina, 1947) é um arquiteto italiano, mora na cidade de Pavia. Escreve contos e poemas em italiano, português, espanhol e francês.


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