Io e mio padre non ci parlavamo. Avevo diciassette anni e non saprei dire quando il nostro rapporto era diventato così difficile. Forse lo era sempre stato. Mio padre non era una persona affettuosa. Mia madre sì, mia madre è piena di attenzioni, in ogni momento, ancora adesso. Mio padre, invece…
Mio padre mi ha sempre pressato con le sue aspettative. Voleva diventassi un uomo di successo, pieno di soldi e con un’ottima reputazione. E’ per lui che sono diventato ciò che sono. Ma non so se attribuirgli meriti o colpe. Cioè, so che molte delle mie scelte derivano dal bisogno della sua approvazione. So che molte di queste scelte mi hanno reso infelice. Eppure non riesco a dire che è colpa di mio padre se sono infelice.
Mi piaceva suonare la chitarra. Non sono mai stato bravo, non ci capisco un cacchio di note. Ma suonare, stonare, mi dava piacere.
Mi incontravo ogni sera con un paio di amici. Ancora non avevo una ragazza. A volte rimanevamo in casa, la loro, perché a casa mia, la presenza di mio padre mi impediva di invitarli. E ce ne stavamo lì a bere birra, mangiare pop corn, fumare marijuana e a sperare che qualunque cosa dovesse succederci succedesse in fretta, ché ad aspettarla troppo ci sembrava di avere già cento anni.
Una sera Paolo, dopo essere passato a prendermi- io avevo con me la mia fedele chitarra – mi disse che i piani erano diversi. Non lo vedevo da una decina di giorni, ma non mi ero chiesto che fine avesse fatto. Avevo pensato stesse studiando, un esame, una prova più difficile a cui dedicare maggiore attenzione.
Mi disse che mi avrebbe portato in un posto diverso, che forse non mi sarebbe piaciuto, ma che si aspettava da me che almeno provassi.
E ci andai.
Mi ritrovai in un appartamento pieno di giovani, tipo una comune, una casa di confratelli di quelle che si vedono nei film americani, ma senza alcool che scorreva a fiumi e senza coppiette avvinghiate a baciarsi sui divani. Erano tutti seduti, una ventina almeno tra ragazzi e ragazze, disposti come in cerchio intorno ad uno spazio centrale della sala, occupato da un uomo strano, una specie di sciamano, un santone.
L’uomo vestiva una tunica rossa, indossava un turbante e aveva tutte le dita delle mani gravide di anelli. All’epoca mi sembrò un vecchio, ma è probabile che avesse poco più di quarant’anni. Era seduto sul pavimento, a gambe incrociate, la tunica troppo corta per coprirgli le ginocchia ossute. Teneva gli occhi chiusi e sibilava.
Un suono potente vibrante, che mi procurava disagio.
Pensai di chiedere spiegazioni a Paolo, che anticipò il mio intento e si portò l’indice alle labbra invitandomi al silenzio. Poi con un gesto della mano, mi fece segno di imitarlo e di sedermi con lui sul pavimento. Tutte le sedie e tutti i divani erano già occupati.
Automaticamente, feci quello che avevo visto fare a lui. Mi sedetti a terra e chiusi gli occhi.
Quel suono, quel sibilo, mi si insinuò dentro, con una carica potentissima. Come il verso di un cobra, come un cobra, quel suono si fece spazio attraverso tutti i miei sensi, avviluppandoli in spire ed impedendomi di sentire altro. Non c’era altro rumore, non c’era altro pensiero, né un’altra sensazione.
Solo quel disagio, che, dapprima pesante, a poco a poco, cominciò a dipanarsi, diradarsi, a farsi più lieve.
Non so quanto tempo rimasi, rimanemmo così. So che ad un certo punto, senza alcun segnale convenuto, tutti aprimmo gli occhi.
Senza guardarci, ciascuno per proprio conto, ci tirammo in piedi e ce ne andammo.
In macchina io e Paolo non ci dicemmo nulla. A stento ci salutammo, quando si fermò sotto casa ed io scesi dall’auto. La mia chitarra era rimasta tutta la sera abbandonata sul sedile posteriore. Feci in tempo a recuperarla, prima di dimenticarmene.
Non so dire come mi sentissi. Ero frastornato, come dopo una sbronza, ma senza perdita di equilibrio e lucidità. Mi sentivo leggero, forse vuoto, di quel vuoto che l’aria riempie e prova a spingere verso l’alto.
Aprii la porta di casa. Mio padre era ancora sveglio, non so che ora fosse, e stava guardando la tv. Diversamente dal solito, non imboccai direttamente il corridoio per raggiungere la mia stanza, ma mi bloccai a guardarlo. Anche lui aveva voltato la testa verso di me e mi stava fissando.
Poi si alzò in piedi e mi venne incontro. Mi abbracciò. Senza dire parole, senza aggiungere nulla. Io, dapprima, rimasi immobile, stupito. Poi come se quel sibilo ancora mi stesse strisciando dentro, mi scossi e lo abbracciai a mia volta.
Rimanemmo così alcuni minuti.
Mio padre, la sua testa bianca e il suo pigiama di flanella stretti al mio petto.
Quando ci separammo, la chitarra, che nel frattempo, avevo continuato a tenere in spalla, mi scivolò.
Mio padre mi aiutò ad afferrarla al volo prima che cadesse.
– Mi suoni qualcosa?- mi chiese.
– Non è troppo tardi?
– Hai ragione.
Gli augurai buona notte e mi avviai verso la mia stanza. Quella fu l’ultima volta, forse l’unica, che l’ho abbracciato.
Non tornai più nell’appartamento del santone. Anche Paolo smisi di vederlo.
Mio padre morì all’incirca un mese dopo.
Nel giorno del suo funerale, buttai via la chitarra.
Maria Monda (Cicciano, Itália, 1981). Cresciuta e vissuta a lungo nella provincia napoletana, nel 2015, mi sono trasferita a Belo Horizonte, dove attualmente vivo. Laureata in Lettere Classiche, ho pubblicato due raccolte di poesie.